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News marzo 2009

Il «tubo ottico» e la nuova faccia della Luna

da L’Osservatore Romano, 27 marzo 2009


Il «tubo ottico» e la nuova faccia della Luna

Il grande scienziato pisano e l’immagine dell’universo al telescopio

Riportiamo un estratto dal catalogo della mostra “Galileo. Immagini dell’universo dall’antichità al telescopio”, a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 30 agosto.

di Paolo Galluzzi

È estremamente probabile che, nella primavera del 1609, giusto 400 anni fa, strani oggetti formati da un corto tubo di cartone alle cui estremità erano fissate due lenti fossero già offerti in vendita nelle calli di Venezia. Questi curiosi dispositivi, che consentivano di vedere ingranditi persone, edifici e paesaggi in lontananza, si potevano acquistare anche a Parigi, in diverse città dell’Olanda e della Germania e in Inghilterra. Un matematico inglese di notevole talento, Thomas Harriot (1560-1621) – noto, tra l’altro, per avere introdotto nel linguaggio matematico i simboli > < per “maggiore di” e “minore di” – fu probabilmente il primo ad impiegare il tubo ottico (come veniva allora denominato) per compiere osservazioni astronomiche. Nell’agosto del 1609 Harriot, dopo averlo puntato sulla Luna, produsse il più antico disegno pervenutoci dell’aspetto del nostro satellite osservato con uno strumento da 6 ingrandimenti. Per graziosa concessione del loro proprietario, Lord Egremont, i disegni autografi di Harriot sono esposti eccezionalmente in questa mostra.

Pochi mesi più tardi, l’ancora sconosciuto professore di matematica dello Studio di Padova, Galileo Galilei, ebbe tra le mani il curioso oggetto, quasi certamente a Venezia, dove amava recarsi per intrattenere stimolanti conversazioni con amici autorevoli – tra i quali Fra Paolo Sarpi, teologo battagliero e filosofo naturale aperto alle novità – e per godere dei piaceri mondani offerti dalla società veneziana. Galileo intuì subito l’enorme potenzialità del tubo ottico e si dedicò al suo perfezionamento, raggiungendo rapidamente risultati notevoli. Nelle sue mani, il giocattolo si trasformò in un vero e proprio strumento scientifico.
Al visitatore di questa mostra è offerta per la prima volta l’occasione unica di ammirare, accanto ai disegni della Luna di Harriot, quelli realizzati da Galileo tra la fine di novembre e le prime settimane di dicembre dello stesso anno. La differenza balza immediatamente agli occhi. Oltre a un’attitudine naturale per il disegno, Galileo disponeva di uno strumento da una ventina di ingrandimenti (mostrava cioè la superficie lunare 400 volte più grande), armato di lenti di qualità decisamente superiore per luminosità e trasparenza.

Ciò spiega perché gli acquerelli che trasse dalle osservazioni della Luna rappresentano un passo avanti straordinario, consegnandoci il primo ritratto realistico della faccia del nostro satellite. Se i disegni galileiani appaiono ancora lontani dal grado di definizione al quale siamo oggi abituati, assai maggiore è la distanza che li separa dai risultati dell’iconografia tradizionale della Luna nella quale, fin dalle civiltà primitive, l’immaginazione aveva riconosciuto di volta in volta il viso di un uomo, con naso, bocca e occhi, o la fisionomia di un coniglio, di un drago, di un albero, e così via.

La scoperta del vero volto della Luna segnò una cesura profonda e non solo nella storia dell’astronomia. Dalle osservazioni telescopiche della Luna Galileo dedusse infatti conclusioni rivoluzionarie sia sul piano fisico che su quello filosofico.

Gli apparve immediatamente insostenibile la convinzione, antica di almeno due millenni, dell’esistenza di una differenza sostanziale tra la Terra, teatro dell’imperfezione e del cambiamento, a causa delle combinazioni continuamente mutevoli dei quattro elementi del mondo sublunare (terra, acqua, aria, fuoco), da un lato, e il mondo celeste, perfetto, immutabile, ripieno della sostanza sottilissima del quinto elemento, solcato solo dai moti circolari delle sfere celesti di materia cristallina che non generano frizioni, né provocano usura, dall’altro. La distinzione strutturale tra Cielo e Terra costituiva uno dei pilastri fondamentali sui quali poggiava la concezione aristotelica dell’universo assimilata dalla visione cosmologica cristiana.

Galileo era perfettamente consapevole delle implicazioni epocali che scaturivano dai fenomeni che, primo tra gli uomini, aveva osservato in quelle notti insonni di quattro secoli fa.

Copernicano convinto già da molti anni, impegnato nella battaglia per l’affermazione del sistema eliocentrico, fino ad allora schernito dagli avversari e accusato di assurdità, egli intuì che il nuovo strumento avrebbe consentito non solo di riformare radicalmente la visione della struttura dell’universo e delle leggi che ne regolano il funzionamento, ma anche di riproporre in termini interamente nuovi il rapporto tra uomo e cosmo.

Nelle prime settimane del 1610 davanti agli occhi sbalorditi di Galileo si rivelarono altre inaudite novità. Quattro satelliti orbitavano intorno a Giove, che appariva dunque fortemente imparentato con la Terra, attorno alla quale la Luna compie le proprie rivoluzioni. Agli occhi di Galileo la scoperta costituiva una prova convincente dell’omogeneità dell’universo. Osservata con il cannocchiale, la Via Lattea risultava un ammasso di innumerevoli stelle, spazzando via d’un sol colpo le fantasiose interpretazioni mitologiche circa l’origine e la natura di questa zona del cielo. La scoperta che la superficie del Sole è punteggiata da macchie scure servì a rafforzare in Galileo la convinzione che i corpi celesti, esattamente come la Terra, erano sottoposti alla corruzione e al cambiamento.

Venere, d’altra parte, svelava al telescopio fasi simili a quelle della Luna, conferendo un colpo mortale all’ipotesi tolemaica. Gli strani rigonfiamenti laterali sul corpo di Saturno, che Galileo interpretò erroneamente come satelliti, mostravano infine che anche il pianeta più esterno era simile alla Terra e a Giove.
Comprensibili ragioni di prudenza indussero tuttavia lo scienziato pisano a frenare il proprio entusiasmo. La divulgazione delle novità celesti ottenute col cannocchiale fu affidata, nella primavera del 1610, a un libretto, pubblicato in gran fretta, il Sidereus Nuncius (l’Annunciatore delle novità celesti), nel quale Galileo riferì la sequenza delle osservazioni telescopiche e delle scoperte senza far trapelare, se non attraverso pochi accenni impliciti, il processo di riflessione sulle grandi questioni filosofiche che avevano messo in moto nella sua mente.

© L’Osservatore Romano

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