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News dicembre 2009

La fisica di Aristotele confermata da relatività e quantistica

da  L’Osservatore Romano, 3 dicembre 2009

La fisica di Aristotele confermata da relatività e quantistica

Matematica, filosofia e scienza secondo il pensiero del filosofo greco

A conclusione dell’anno galileiano, si conclude il 2 dicembre il convegno “From Galilei’s Telescope to Evolutionary Cosmology. Science, Philosophy and Theology in Dialogue” organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Pontificia Università Lateranense. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di uno dei relatori.

di Enrico Berti

La “via” aristotelica va da una cosmologia fisica, una visione dell’universo determinata dalla scienza della natura, a una cosmologia metafisica, cioè a una visione dell’universo che approda a un principio metafisico, trascendente la realtà fisica.

Al termine della sua Fisica, per spiegare quello che egli riteneva essere il movimento eterno del primo cielo, o cielo delle stelle fisse, Aristotele è costretto ad ammettere la necessità di un motore immobile, cioè di un principio che, per il fatto di essere appunto immobile, si sottrae all’ambito del mondo fisico, caratterizzato dal movimento, e quindi si caratterizza come “metafisico”. Dunque la cosmologia fisica entra in misura massiccia nel discorso metafisico di Aristotele, ma per una ragione che dovrebbe essere apprezzata soprattutto dai filosofi moderni e contemporanei, cioè per la necessità di “fare i conti con la scienza del proprio tempo”.

Al rispetto verso la scienza, in particolare verso la matematica, si unisce tuttavia, in Aristotele, la convinzione che la fisica non sia una scienza matematica, e quindi non abbia il carattere di rigore assoluto e di assoluta necessità che a suo giudizio caratterizza la matematica, ma sia una scienza meno esatta, più “flessibile”, cioè più approssimativa, la quale enuncia non ciò che accade sempre, cioè in tutti i casi, ma ciò che accade nella maggior parte dei casi, quindi con eccezioni alla regola.

Questo carattere di flessibilità, di approssimazione, che Aristotele attribuiva alla fisica, non sempre fu tenuto nella necessaria considerazione, sia da quanti si richiamavano ad Aristotele, come ad esempio il grande logico del Cinquecento Giacomo Zabarella, sia da quanti si opponevano alla sua fisica, ma non alla sua logica, come Galileo Galilei.

Il momento specificamente metafisico della via aristotelica dalla cosmologia fisica alla cosmologia metafisica non subì alcun sostanziale mutamento nell’antichità. Invece il momento specificamente fisico della via aristotelica, cioè quello riguardante la struttura dell’universo fisico, subì profonde trasformazioni rispetto allo stadio a cui era giunto con Aristotele. Della incompatibilità del sistema tolemaico con la fisica e la cosmologia aristotelica si avvidero chiaramente i filosofi aristotelici ortodossi del medioevo, cioè il musulmano Averroè, l’ebreo Mosè Maimonide e il cristiano Tommaso d’Aquino, i quali non esitarono a schierarsi dalla parte di Aristotele, relegando il sistema tolemaico al livello di semplice ipotesi matematica, non necessariamente vera.

Nel Cinquecento la distinzione aristotelica tra fisica e matematica finì con l’essere in gran parte trascurata, perché si elaborò il metodo del cosiddetto regressus, applicabile indistintamente a tutte le scienze, sia fisiche che matematiche e metafisiche. Questo consiste in due percorsi, il primo, che in fisica va dagli effetti alle cause e in matematica va dalle conseguenze alle premesse, è chiamato “metodo risolutivo” o analisi, e identificato con quella che Aristotele chiamava la “dimostrazione del che”, e gli scolastici dimostrazione “a posteriori”; il secondo percorso, complementare al primo, che in fisica va dalle cause agli effetti, cioè dai principi all’esperienza, e in matematica va dalle premesse alle conclusioni, è chiamato “metodo compositivo” o sintesi, e identificato con quella che Aristotele chiamava la “dimostrazione del perché”, e gli scolastici dimostrazione “a priori”.

Colui che formulò nel modo più rigoroso, divenuto poi più influente, questo metodo, fu il logico aristotelico Giacomo Zabarella, il quale tuttavia fraintese la distinzione stabilita da Aristotele tra l’uso matematico e l’uso fisico dell’analisi, interpretando la precisazione di Aristotele che l’analisi è sicura solo “nelle scienze matematiche” (èn tòis mathèmasin), come se essa significasse “in tutte le discipline” (in disciplinis), e quindi anche in fisica.

È interessante il fatto che a questo metodo aderì anche Galilei, il quale lo apprese dalle sue frequentazioni giovanili dei gesuiti del Collegio Romano, profondamente influenzati da Zabarella. Anche Galilei, infatti, credette che la fisica, in particolare l’astronomia, si strutturasse come la matematica, cioè procedesse con metodo prima risolutivo e poi compositivo, e in tal modo fosse in grado di fornire “necessarie dimostrazioni”, cioè dimostrazioni dotate di necessità, non solo dalle cause agli effetti, ma anche dagli effetti alle cause. Del resto in logica egli si considerò sempre, come è noto, del tutto aristotelico, riferendosi all’aristotelismo del suo tempo, cioè soprattutto di Zabarella. La novità che Galilei introdusse nel regressus furono gli esperimenti, le “sensate esperienze”, cioè il cosiddetto metodo sperimentale.

Questa convinzione era comune anche a un aristotelico come il cardinale Roberto Bellarmino, malgrado il suo celebre richiamo alla differenza tra ipotesi matematiche e dimostrazioni fisiche contenuta nella lettera al padre Antonio Foscarini.

Bellarmino considera ipotesi matematiche sia la teoria copernicana che quella tolemaica, ma è convinto che le Scritture sostengano il geocentrismo e, per cambiare tale interpretazione, pretende da Galileo una dimostrazione dell’eliocentrismo di tipo assolutamente necessario, come se si trattasse di decidere tra due verità assolute.

Il paradosso è che la stessa convinzione era presente anche in Galilei, il quale, come è noto, riteneva di avere trovato l’argomento che provava in modo assolutamente necessario la verità della teoria copernicana e lo individuava nel fenomeno delle maree, da lui spiegato come conseguenza del moto della Terra. Eppure Galilei aveva capito che la Scrittura non ha bisogno di trovare conferma nelle necessarie dimostrazioni, perché essa non ci insegna come va il cielo, bensì come si va in cielo. Non c’è da stupirsi, quindi, che un teologo di corte, come padre Niccolò Riccardi, “maestro del Sacro Palazzo”, cioè teologo del Papa, abbia condiviso questa stessa logica ammessa dal cardinale Bellarmino e dallo stesso Galileo.
È noto, infatti, che quando Galileo chiese l’imprimatur per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi, il padre Riccardi, cui competeva tale concessione, gli pose tre condizioni: mutare il titolo, che nella versione originale suonava Del flusso e riflesso del mare, cioè alludeva proprio alle maree come prova del moto della terra e quindi dell’eliocentrismo; presentare la teoria copernicana come una semplice ipotesi matematica; riportare l’osservazione fattagli alcuni anni prima in udienze private da Urbano viii, secondo la quale l’argomento delle maree, dimostrando il carattere necessario dell’eliocentrismo, avrebbe potuto limitare l’onnipotenza di Dio.

Di questo discorso è interessante anzitutto la licenza che il teologo del Papa concede a Galileo di criticare “la filosofia peripatetica”, la quale licenza dimostra che alla Chiesa non interessava tanto difendere l’aristotelismo, come molti vanno ripetendo, quanto difendere la propria interpretazione delle Scritture.

In conclusione, è vero che in Aristotele la cosmologia metafisica è condizionata dalla cosmologia fisica, ma è anche vero che Aristotele non attribuisce alla cosmologia fisica, e alla fisica in generale, lo stesso carattere di necessità che egli attribuiva alle dimostrazioni matematiche, e che gli aristotelici moderni – non quelli medievali – nonché il cardinale Bellarmino, Urbano viii e lo stesso Galilei, attribuirono alla cosmologia fisica.

Solo in tempi recenti, dopo la cosiddetta seconda rivoluzione scientifica, quella verificatasi tra Ottocento e Novecento a opera della teoria delle relatività, del principio di indeterminazione e della fisica quantistica, si è compreso il carattere non necessario, ma approssimativo, cioè statisticamente probabile, della scienza in generale e quindi della stessa cosmologia fisica, quello stesso carattere approssimativo che secondo Aristotele distingueva la fisica dalla matematica. Perciò solo in tempi recenti è venuto meno il pericolo di un contrasto tra la fisica e la metafisica, cioè si è ristabilita grazie alla costruzione di una nuova fisica quell’armonia tra scienza e filosofia che esisteva al tempo di Aristotele.

© L’Osservatore Romano

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