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News marzo 2009

Quell’indomabile «caval berbero»

da L’Osservatore Romano, 27 marzo 2009


Quell’indomabile «caval berbero»

Galileo Galilei e il Vaticano

Pubblichiamo la prefazione al libro Galileo e il Vaticano, di Mariano Artigas e Melchor Sánchez de Toca (Venezia, Marcianum Press, 2009, pagine 311, euro 22).

di Gianfranco Ravasi

“Io credo che i filosofi volino come l’aquile, e non come gli storni. È ben vero che quelle, perché son rare, poco si veggono e meno si sentono, e questi, che volano a stormi, dovunque si posano, empiendo il ciel di strida e di rumori, mettono sozzopra il mondo”. Con questa immagine così vivace del suo Saggiatore, il celebre trattato sulla natura delle comete pubblicato nel 1623, le cui pagine si aprono a questioni teoriche e metodologiche più ampie, introducendo anche la spezia della polemica, Galileo Galilei ribadiva simbolicamente la tesi – sempre espressa in quel testo – secondo la quale “infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla”, gli storni, appunto, che starnazzano volando a bassa quota. “Pochi sono quelli che sanno qualche piccola cosetta”, continuava “pochissimi quelli che ne sanno qualche particella” e costoro sono quelle aquile lontane e silenziose, sopra le quali c’è “uno solo, Dio, quello che sa tutto”.

Il vociare attorno a Galileo fu assordante nei suoi giorni travagliati e lo fu nei secoli successivi con stormi di “storni” pronti ad avvolgere la sua figura, a oscurarla, a contaminarla, a deformarla, ma anche a trasformarla in forma sorprendente. Come non pensare alle metamorfosi presenti nel dramma La vita di Galileo, elaborate da Brecht a partire dal 1939 fino al 1955, con profili mutevoli ora di lottatore ora di uomo pavido? Oppure alle fisionomie emergenti dall’intenso Galileo della Cavani, un film del 1968, o all’omonima opera cinematografica, dignitosa ma stanca, di Joseph Losey del 1975? Si potrebbe procedere a lungo nella ricostruzione di questo ritratto costantemente mobile dello scienziato. Ciò che rimaneva fisso era, però, il suo essere emblema di uno scontro quasi titanico tra scienza e fede, tra ricerca e dogma, vittima sacrificata sull’altare della teologia.

In realtà la vicenda storica che aveva generato questo profilo drammatico era stata molto più complessa e richiedeva una coraggiosa opera di analisi ed eventualmente di revisione, soprattutto in sede ecclesiale. Già i Padri del Concilio Vaticano ii avevano intrapreso questo percorso, lasciandolo però curiosamente sospeso:  da un lato, infatti, l’avevano affidato a una generica deplorazione di “certi atteggiamenti mentali derivanti da non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza”, ma d’altro lato, avevano svelato in una nota che si intendeva alludere a Galileo, dato che si citava la biografia galileiana di Pio Paschini del 1964 (Gaudium et Spes n. 36). La svolta vera fu imposta da Giovanni Paolo II quando, nel 1981, istituì la “Commissione del caso Galileo”, presieduta dal cardinale Gabriel-Marie Garrone, coadiuvato dal cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, il domenicano Enrico di Rovasenda.

Il programma di lavoro era così delineato in una lettera che il segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, aveva indirizzato al presidente:  “Ripensare tutta la questione galileiana in piena fedeltà ai fatti storicamente documentati e in conformità alle dottrine e alla cultura del tempo, e riconoscere lealmente (…) i torti e le ragioni da qualunque parte provengano”. Si trattava, dunque, non di una revisione processuale, bensì di “una serena riflessione oggettivamente fondata, nell’odierna epoca storico-culturale”. La Commissione veniva articolata in quattro branche:  l’esegetica, diretta dall’allora arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini; la culturale, affidata all’attuale cardinale Paul Poupard:  la scientifico-epistemologica con padre George Coyne e Carlos Chagas e, infine, la sezione storica guidata da monsignor Michele Maccarrone e da Mario d’Addio.

La vicenda di questo team di lavoro, che operò tra il 1981 e il 1992 con fasi e ritmi diversificati e alternanti, è ora accuratamente ricostruita nel volume Galileo e il Vaticano, scritto a quattro mani da un professore di filosofia della scienza delle università spagnole di Barcellona e Navarra e grande esperto dello scienziato pisano, Mariano Artigas, scomparso nel 2006, e da monsignor Melchor Sánchez de Toca, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura.

Con un taglio narrativo, ma anche con rigore documentario, sfilano, quasi come in un filmato, le varie tappe della storia di questa commissione a partire dalla prima riunione del 9 ottobre 1981. L’itinerario fu effettivamente sinusoidale, con momenti di grande fervore, ma anche con dispersioni e pause, peraltro scontate in simili istituzioni.

Fu così che nel 1990 Giovanni Paolo II incaricò formalmente il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di prendere in mano i lavori per avviarli a una sintesi conclusiva, che venne approntata due anni dopo e presentata il 31 ottobre 1992 con un atto ufficiale celebrato nella Sala Regia del Vaticano. La ricca documentazione storico-critica ed ermeneutica confluiva nel riconoscimento dell'”errore soggettivo di giudizio” dei giudici di Galileo, incapaci di distinguere tra il dato di fede, ossia “le verità necessarie per la salute” spirituale, se vogliamo una formula galileiana, e la cornice espressiva legata a una cosmologia contingente, allora vigente e di matrice tradizionale.

Importante, però, era anche l’invito a lasciare alle spalle le macerie di un passato infelice, generatore di una “tragica e reciproca incomprensione”, come dirà Giovanni Paolo II nel discorso conclusivo, ed edificare un nuovo dialogo tra scienza e fede. La speranza era – sempre per usare le parole del Papa – che quel “doloroso malinteso appartenesse ormai al passato” e si aprisse un orizzonte libero da ogni “opposizione costitutiva tra scienza e fede”.
A suggellare questa attesa ci fu anche la confessione di peccato da parte della Chiesa, nella “giornata del perdono” durante il Giubileo del 2000. Oggi, però, bisogna riconoscere che il passato non è stato così facilmente sepolto. Non lo è stato neppure per quanto riguarda la stessa “Commissione Galileo”, che – come è attestato nel capitolo finale del saggio sopra citato – fu oggetto di diverse critiche e contestazioni e da alcuni considerata come troppo “minimalista” e apologetica.

I materiali e le analisi offerte da Artigas e Sánchez de Toca permettono ora un giudizio oggettivo da parte degli storici. Certo è che da allora la Chiesa si è impegnata in un confronto vivace e più pacato con la scienza. Ne è testimonianza un progetto, sorto proprio come risultato degli eventi riferiti, intitolato Science, Theology and the Ontological Quest (Stoq), patrocinato dal Pontificio Consiglio della Cultura. Tra l’altro, questo progetto istituzionale ha appena concluso, alla Pontificia Università Gregoriana, un importante simposio sul tema dell’evoluzione biologica, convocando in un dialogo diretto scienziati di ogni estrazione ideologica, confessionale o agnostica, filosofi e teologi.

È suggestivo, poi, che Benedetto XVI abbia voluto esplicitamente evocare Galileo in questo anno dedicato all’astronomia in occasione dei quattrocento anni delle sue rilevazioni col cannocchiale, sia nel discorso all’Angelus del 21 dicembre 2008, data del solstizio d’inverno, scandito anche dalla meridiana posta proprio sulla planimetria di piazza San Pietro, sia nell’omelia dell’Epifania 2009, segnata dalla stella dei Magi. Tuttavia, la strada da percorrere per il dialogo tra scienza e fede è ancora lunga, erta e irta di ostacoli ed esige rispetto vicendevole, umiltà contro ogni hybris e prevaricazione, verifica e conoscenza reciproca. Come abbiamo fatto in apertura, vorremmo in finale lasciare la parola al Galilei, ricorrendo ancora al Saggiatore. Se è lecito aggiungere un ricordo personale, quest’opera mi è cara perché per anni a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana, ho custodito l’edizione originale che lo stesso Galileo aveva inviato all’arcivescovo cardinale Federico Borromeo, cugino di san Carlo e fondatore di quell’istituzione culturale milanese, accompagnandola con una lettera datata 18 novembre 1623, nella speranza che il cardinale potesse collocare quest'”opera bassa e frale” in “uno dei più riposti angoli” della sua “Eroica et immortal Libreria”.

Ebbene, lo scienziato, in una pagina di quel testo – che, come egli stesso confessava al Borromeo, nella prima edizione era zeppo di errori tipografici tanto da esigere un allegato errata corrige – rimanda a un’altra immagine zoologica per evocare la solitudine del vero studioso geniale, che corre avanti alla schiera dei cavalli frisoni, simile a un cavallo berbero, cogliendo l’essenziale della corsa e sgravandosi di ogni zavorra. Ecco le sue parole:  “Poca più stima farei dell’attestazione di molti, che di quella di pochi (…) Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facesser più che uno solo:  ma il discorrere è come il correre, e non come il portare; ed un caval barbero solo correrà più che cento frisoni”.

© L’Osservatore Romano

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