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News luglio 2009

Scienza atea, una illusione

da Avvenire, Mercoledì 29 Luglio 2009

Scienza atea, una illusione

di Andrea Galli

La definizione sicuramente non gli piace, ma quello che si può considerare l’ « anti­Odifreddi » – genovese, sei anni in meno del logico cuneese – ha appena portato in libreria la sua risposta all’ultima ondata pamphlettistica di scientisti con­tro Dio. Da Daniel Dennett a Ri­chard Dawkins, da Telmo Pievani a Odifreddi e Danilo Mainardi: Roberto Timossi, teologo e filo­sofo della scienza, ha passato tre anni a raccogliere e vagliare la recente pubblicistica antiteistica uscendone con il tomo L’illusio­ne dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio (San Paolo, pagine 574, euro 24), che porta una pre­sentazione del cardinale Angelo Bagnasco.

Timossi, qual è l’aporia più dif­fusa nell’argomentare dei Dawkins e Odifreddi vari?

«Direi il riconoscere in base al­l’epistemologia contemporanea che la scienza è fallibile e limita­ta, e allo stesso tempo arrivare a conclusioni apodittiche su que­stioni su cui la scienza empirica per definizione non può espri­mersi, come quelle metafisiche o spirituali» .

La scienza è conoscenza solida, seppur sempre perfezionabile, e impermeabile alla fede. Come risponderebbe?

«Che la scienza stessa ha biso­gno, spingendosi in ipotesi non verificabili direttamente, di ‘ atti di fede’. Le faccio un esempio recente. Il principio cosmologico è quello secondo cui l’universo sarebbe in ogni situazione iso­tropo e omogeneo, ovvero ugua­le e soggetto alle stesse leggi in tutte le sue zone. Se non c’è la possibilità della ripetibilità, sen­za il presupposto che l’universo abbia ovunque le stesse leggi, di­venta difficile fare delle afferma­zioni che abbiano valore, appun­to, universale. Recentemente al­cuni importanti ricercatori ame­ricani che studiano la cosiddetta energia oscura, per spiegare del­le anomalie nelle osservazioni sono giunti a mettere in discus­sione il principio cosmologico. Ne ha dato conto la rivista Scien­tific American sul numero di a­prile. Anche questo è un ‘ atto di fede’. Come lo sono tutte quelle ipotesi da cui grandi scienziati partono e in cui credono senza avere ancora osservazioni, docu­mentazioni, dati empirici certi per poter dire che è così».

Dopo la sua disamina enciclo­pedica, quale differenze trova tra la produzione ateistica di lingua ingle­se e quella italiana?

«La produzione italiana risente spesso di un ta­glio provinciale, quindi scade nella polemica an­ti- cattolica e anti- eccle­siale, finendo per allon­tanarsi da quello che do­vrebbe essere su questi temi un dialogo, o anche un scontro, alto. Mi viene in mente l’ultimo nu­mero di Micro Mega, che contie­ne un intervento di Telmo Pieva­ni e Orlando Franceschelli – stu­diosi che per altre cose apprezzo – contro il cosiddetto ‘darwini­smo ecclesiastico’. Una polemi­ca su un intervento di monsi­gnor Fiorenzo Facchini e sulla sua prefazione a un recente libro di Francisco Ayala. Una polemi­ca quasi politica, che alla fine ha poco o nulla che fare con il vero dibattito sul rapporto tra scienza e fede. O penso ancora a un in­tervento di Pievani contro mon­signor Ravasi e altri, prima di a­ver sentito quello che avrebbero detto in occasione del convegno su Darwin organizzato dal Ponti­ficio consiglio della cultura, lo scorso marzo» .

Il tempo passa, Darwin resta u­no degli appigli preferiti per lo scientismo ateo.

«Sì, anche se penso che lo stesso naturalista inglese – che nelle sue lettere prese le distanze dalle repentine strumentalizzazioni delle sue teorie – sarebbe il pri­mo a schermirsi » .

In due parole, come definirebbe il rapporto corretto tra scienza e fede?

«Userei la famosa diade del ma­tematico e filosofo Gottlob Fre­ge: senso e significato. La scien­za ci mostra come non sia il caos a prevalere, come esistano delle leggi, un’intelaiatura del reale. Questo è quello che potremmo chiamare il ‘ senso’. Il problema su cui devono lavorare invece fi­losofia e teologia, partendo da quanto è mostrato dalla scienza, è quello del ‘ significato’».

Nel suo libro lei passa in rasse­gna un numero sbalorditivo di scienziati la cui attività è andata di pari passo con un’apertura alla fede o alla dimensione reli­giosa. Chi, in questa carrellata, è per lei più significativo?

«Gli esempi sono tanti, si potreb­be parlare di Galileo, Lemaître o Mendel. Dovendo sceglierne u­no, direi forse il fisico tedesco Max Planck. Planck aveva una proprensione filosofica sponta­nea, nutrita poi con delle letture specifiche. Aveva una grande a­pertura al mistero sottostante al reale: la scoperta che l’ha reso famoso, quella dei quanti, è av­venuta in fondo contro quello che lui stesso si riproponeva. A­veva una coscienza chiara del fatto che la scienza non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava, e che il credere in Dio agevolava il lavoro dello scienziato: la sua capacità di me­ravigliarsi, la sua voglia di fare e scoprire».

Copyright Avvenire, 29 luglio 2009

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