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News novembre 2010

Il vaccino efficace che ci libera dalle parole logore

da  L’Osservatore Romano, 4 novembre 2010


Il vaccino efficace che ci libera dalle parole logore

Presentata l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura

Nella mattinata di mercoledì 3 novembre è stata presentata in conferenza stampa l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura che si svolgerà dal 10 al 13 novembre sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”. Oltre all’arcivescovo presidente – del quale anticipiamo quasi integralmente l’intervento – erano presenti anche monsignor Pasquale Iacobone, responsabile del Dipartimento arte e cultura del Pontificio  Consiglio della Cultura, Richard Rouse, responsabile del Dipartimento comunicazione e linguaggi dello stesso dicastero, e il vescovo di Regensburg, monsignor Gerhard  Ludwig, curatore dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger. Nell’occasione infatti è stato presentato anche il dodicesimo volume in lingua tedesca – Künder des Wortes und Diener eurer Freude (Herder) – dell’opera del Papa.

di Gianfranco Ravasi

“Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle”. Con sorprendente “modernità” Qohelet (1, 8) coglie nel bersaglio uno dei punti deboli della comunicazione umana giunta alla sua deriva di chiacchiera o di mutismo espressivo. Questo esito si riverbera poi nello stesso agire che si estenua in atti insensati e la frase ebraica dell’antico sapiente biblico custodisce al suo interno anche questo ulteriore significato:  è noto, infatti, che in ebraico dabar non è solo “parola”, ma anche “atto”:  “Tutte le azioni sono vuote e l’uomo non può più espletarle”, potremmo anche tradurre. Questo accade perché si rompe il circuito virtuoso che regge e alimenta il dire e il fare, ossia la comunicazione.
Scrive a questo proposito un’esegeta, Rosanna Virgili:  “Quando le parole uscissero da questo circolo di relazione, che conferisce loro pienezza, vagherebbero smarrite nel buio dello svuotamento semantico. Ciò accade quando l’orecchio non riesce a saziarsi di quanto ode, poiché le parole – come dice Qohelet – sono “cave”, impotenti a procurare un plusvalore con cui si possa garantire il futuro. Le parole dell’uomo si rivelano come bucate, sottili e fragili, senza spessore; esse restano a mezzo e non sono in grado di cogliere la realtà del mondo, né di produrre una piena conoscenza”.
Per questo, un altro esegeta, Santi Grasso, nel suo recente commento al Vangelo di Giovanni, ha paradossalmente tradotto il celebre incipit così:  “In principio era la Comunicazione”. La resa è per varie ragioni discutibile, ma coglie un aspetto strutturale del Lògos nella sua realtà di comunione intratrinitaria (“era presso Dio, era Dio, era in principio presso Dio”) e di rivelazione-azione ad extra (“tutto è stato fatto per mezzo suo e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste… Dio nessuno l’ha mai visto:  il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”).
La Parola divina diventa così l’archetipo dell’autentico comunicare manifestando in sé tutto il suo valore di Wort, “Verbo” che si comunica, ma anche – per continuare a usare la celebre “tastiera” di armoniche semantiche proposta dal Faust di Goethe – è Kraft, “potenza” efficace che trasforma, è Sinn, “significato” profondo di un messaggio, ed è infine Tat, “azione” creatrice e redentrice. Non per nulla i due grandi eventi costitutivi dell’essere creato e dell’esistere storico sono fondati sulla Parola divina:  “In principio (…) Dio disse:  Sia la luce! E la luce fu” (Genesi, 1, 1.3), e sul Sinai “Dio vi parlò di mezzo al fuoco:  voce di parole voi ascoltaste, immagine alcuna non vedeste:  era solo una voce” (Deuteronomio, 4, 12).
Consapevoli di questi due poli estremi, da un lato, del non-sense della deriva a cui ci ha portati una comunicazione svuotata e logora e, dall’altro lato, la straordinaria carica epifanica che ha in sé il linguaggio, analogia suprema per dire Dio, si è voluto dedicare qualche giorno a una sosta di riflessione proprio attorno alla “cultura della comunicazione e ai nuovi linguaggi”.
È ciò che farà dal 10 al 13 novembre 2010 il Pontificio Consiglio della Cultura attraverso l’assemblea plenaria dei suoi membri e consultori. Un’assemblea piuttosto insolita rispetto alla prassi tradizionale degli organismi istituzionali della Santa Sede. Già l’ambito del momento inaugurale è significativo:  il Campidoglio diventa il simbolo di una comunicazione che, come suggeriva Gesù, risuona dalle “terrazze”, in pratica dai tetti ove sono insediate le parabole mediatiche e le antenne televisive, coinvolgendo la pòlis che ascolta talora distratta, altre volte incuriosita, talvolta partecipe, non di rado beffarda, come accadde a Paolo sull’Areopago ateniese.
Non per nulla a stimolare la riflessione sono figure diverse poste ai crocevia della comunicazione, come il Presidente-Direttore Generale di France Télévisions, Patrick de Carolis, o un raffinato e tagliente esperto di media come Aldo Grasso e, infine, un originale osservatore dei fenomeni legati alla sperimentazione cinematografica, il gesuita canadese Lloyd Baugh.
Da quell’apertura si snoda, poi, il percorso vero e proprio della ricerca. Essa vuole evitare due bordi estremi che rischierebbero di impaludare il corso del fiume:  da un lato, la registrazione fenomenologica di tutte le questioni e dei modelli che il tema comporta; d’altro lato, non si vuole neppure elaborare una serie di paradigmi concreti immediatamente operativi e legati ai vari soggetti, oggetti, contesti e metodi d’azione. La traiettoria sarà, perciò, quella un po’ ardua ma essenziale che si dirama su un crinale ove si individuano e approfondiscono i problemi capitali e ove si delineano in modo simbolico alcune soluzioni, testimoniate da chi le ha già sperimentate e collaudate.
Sono cinque le tappe di questo itinerario ideale. La prima è un vero e proprio sentiero d’altura perché fissa lo sguardo sulla persona umana avvolta nella “rete” delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione. A disegnarne un ritratto è un noto teologo, il vescovo di Regensburg, città universitaria cara a Benedetto XVI, monsignor Gerhard L. Müller:  il volto dell’uomo e della donna contemporanei ha subito un mutamento sorprendente in questo ultimo arco di tempo proprio attraverso la metamorfosi della comunicazione, un trapasso che – con qualche eccesso – uno studioso americano di simili fenomeni, John Barlow, ha comparato alla scoperta del fuoco.
Il sapere si rivela tutto e subito disponibile, il dialogo tra mondi culturali differenti è istantaneo, le frontiere si dissolvono, riflettori inesorabili scandagliano profondità e altezze impedendo censure e così via elencando. Ma si registra anche lo smarrimento di ogni criterio di verifica dei dati, la relazione si raggela affidandosi a un linguaggio semplificato o all’artificiosità del contatto virtuale che può degenerare verso rapporti oscuri e deviati. Si configura, così, una strana “presenza-assenza” che lentamente crea una nuova identità antropologica.
Rimane, comunque, sempre vero l’asserto di Pascal secondo il quale “l’uomo supera infinitamente l’uomo”. Ci sono alcune costanti alte e potenti che costituiscono una risorsa di riscatto e di esaltazione. È il caso della seconda tappa di questa ricerca:  si apre il sipario sul linguaggio dell’arte e ad attestarlo quasi in corpore nobili sono due famosi artisti, Roland Joffé, il regista noto a tutti per un film “di culto” come Mission (1986), e il musicista Ennio Morricone che ha saputo conservare la classe della musica colta declinandola, però, in forme tanto lineari e incisive da conquistare la sensibilità contemporanea e da adattarsi ai moduli espressivi delle nuove generazioni.
A costoro, che sono i fruitori instancabili dei nuovi media e che ne sembrano essere spesso anche le vittime, è dedicata la terza tappa del percorso che stiamo solo abbozzando. Un americano, padre Robert Barron, che da tempo con grande successo ha messo a punto un Catholicism Project che corre su varie reti televisive e informatiche, si è ormai rivolto soprattutto alla next-generation, coinvolgendola in un esercizio di memoria, di creatività e di relazione proprio attorno ai temi della fede. Un pubblico, apparentemente ostile e fin repulsivo nei confronti di un orizzonte spirituale, si rivela, invece, sensibile, soprattutto quando si riscopre l’incisività dei simboli che rendono, a livello di comunicazione, tra loro sorelle l’arte e la fede, l’intuizione creatrice e la visione religiosa.
Con la quarta tappa si entra nel tempio. Il rito, infatti, col suo numen, cioè col suo mistero, e col suo lumen, la sua rivelazione di luce, bellezza e atto, è una componente costante della comunicazione umana, anche “laica”:  basti pensare ai raduni di massa, allo sport e ai suoi ritmi, al folclore e così via. Il focus, però, dell’analisi si concentra sulla liturgia cristiana che intreccia in sé tempo, materia, corpo, sensi, gestualità, arte, parola, estetica, spirito e trascendenza. I codici di questa comunicazione così specifica vengono perlustrati da Enzo Bianchi. La memoria che la liturgia comporta verrà simbolicamente rappresentata attraverso una sorta di pellegrinaggio iconografico, in quella mirabile sequenza che è costituita dalle catacombe di via Dino Compagni la cui decifrazione sarà affidata a uno dei massimi esperti di questo tipo d’arte religiosa, Fabrizio Bisconti.
Da laggiù si risalirà per l’ultima tappa che è, invece, collocata nell’agorà della modernità informatica e che ha come emblema la tipica “chiocciola” @. Essa punteggia già la trilogia tematica sulla quale si confronteranno due operatori diretti, l’italo-americano di Microsoft Pietro Scott Jovane e un delegato di Google:  “Inform@ti Interattivi Inter-connessi” è il titolo della loro proposta tutta ritmata su questi nuovi linguaggi.
Si ritorna, così, al punto di partenza, nel cuore di una vera e propria rivoluzione-evoluzione di cui tutti sono partecipi in modo consapevole e spesso inconscio.
Il percorso di cui abbiamo ora tracciato la mappa avrà, comunque, uno svolgimento e un approdo di livello differente. La trama di questi incontri, infatti, non sarà mai “a lezione”, secondo i canoni dei rituali accademici o convegnistici, bensì sarà a confronto continuo tra “testimoni” dei rispettivi campi e interlocutori che reagiscono, interpellano, criticano, verificano, giudicano, aggiungono, perfezionano.
L’approdo sarà naturalmente nell’incontro con Benedetto XVI e con le sue parole che saranno considerate come un nuovo avvio, nella consapevolezza che un simile tema, proprio del Dna stesso della Chiesa, non può mai essere archiviato come una pratica protocollata e conclusa.
San Paolo dichiara esplicitamente che “Cristo mi ha mandato ad annunciare il Vangelo”, ma subito annota il rischio connesso a un mero esercizio tecnico del kerygma o della catechesi o dell’omelia:  “Non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1 Corinzi, 1, 17). Si schiude, in tal modo, non solo il vasto orizzonte del futuro, ma anche del genere specifico di ogni comunicazione religiosa, quello della testimonianza. Il codice comunicativo principe è quello della persona e della vita. L’intero programma della Chiesa delle origini secondo gli Atti degli apostoli è appunto nella martyría, la testimonianza.
La categoria veritativa raggiunge la sua pienezza quando intreccia i tre anelli del pensiero, della parola e dell’azione. E questa trilogia, custodita nella sua “simbolicità”, costituisce anche l’autentica comunicazione. Solo così si riesce a creare il vaccino spirituale e culturale che ci libera dalle “parole logore” o vuote condannate ed esorcizzate da Qohelet.

© L’Osservatore Romano

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