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News aprile 2010

Il negativo più famoso del mondo

da  L’Osservatore Romano, 25 aprile 2010

Il negativo più famoso del mondo

La Sindone e il volto di Gesù nell’arte

Pubblichiamo stralci del saggio Alla ricerca del volto di Cristo tratto dal catalogo della mostra “Gesù. Il corpo, il volto nell’arte” aperta fino al primo agosto 2010 alla Venaria Reale di Torino.

di Michele Bacci

La Sindone di Torino è probabilmente l’unico, fra gli antichi oggetti di culto celebrati dalla tradizione cattolica, ad aver suscitato negli ultimi decenni tanta attenzione da parte sia dei mezzi di comunicazione di massa che di un gran numero di specialisti delle più diverse discipline. Il suo aspetto materiale, tanto eccezionale e paradossale quanto in grado di esercitare un forte impatto emotivo sull’osservatore, sembra aver stimolato nei suoi commentatori moderni per lo più reazioni radicali e opposte, ma accomunate dall’insistenza sulla questione dell’autenticità, che ci si è affannati a dimostrare, o a negare, sulla base di analisi scientifiche e argomentazioni storiche più o meno accurate. La sterminata bibliografia sindonologica dà conto dello sforzo immane con cui si è tentato, con vari mezzi, di comprovare o mettere in discussione la tradizionale identificazione del sacro panno venerato a Torino col sudario in cui fu avvolto il corpo di Cristo al momento della sua sepoltura:  lo si è fatto, ad esempio, ricorrendo alla datazione per mezzo del radiocarbonio, alla sua riproduzione chimica in laboratorio, all’analisi dei resti biologici presenti sul tessuto, alla formulazione delle più originali ipotesi circa le sue origini, l’ipotetica traslazione da Atene o da Costantinopoli a opera dei crociati del 1204 o la pretesa associazione col sempre popolarissimo ordine dei cavalieri templari.

Questo rischia tuttavia di farci perdere di vista quello che, probabilmente, è l’elemento più affascinante della Sindone, ossia il suo porsi come oggetto sacro ambiguo, che evoca il corpo e il volto di Cristo, nella complessità delle sue implicazioni sacramentali, per mezzo di un’impronta quasi impercettibile all’occhio, che ha avuto bisogno del celebre negativo realizzato dal fotografo Secondo Pia nel 1898 per trasformarsi in un’icona universale, dai tratti definiti e riproducibile all’infinito.

In questo suo aspetto costituisce l’oggetto sacro che più si apparenta alle antiche effigi acheropite (non fatte da mano d’uomo) e non tanto in virtù del fatto che alcuni studiosi l’hanno identificata, piuttosto azzardatamente, con famosi cimeli sacri d’Oriente come il Mandylion di Edessa, o hanno sottolineato l’affinità di certi suoi tratti con l’aspetto di opere assai sui generis come il Volto santo di Manoppello, un dipinto su lino finissimo, di incerta datazione, in cui si è voluta riconoscere la “Veronica” originariamente venerata in San Pietro a Roma, anche se un’altra recente interpretazione la identifica con un presunto autoritratto di Dürer.

Il maggior tratto di affinità delle acheropite con la Sindone è rappresentato piuttosto dalla loro natura paradossale, spesso enfatizzata dalle fonti antiche, di immagini informi, tracce disomogeneamente disposte sulla superficie di un pezzo di stoffa, che l’immaginazione dell’osservatore era chiamata a ricomporre e l’estro dei pittori a tradurre in una forma definita e riconoscibile; in quanto impronte sovrannaturali del corpo di Cristo testimoniavano materialmente della realtà dell’Incarnazione e dichiaravano senza mezzi termini che il Figlio di Dio si era mostrato agli uomini in una forma percettibile e che aveva sentito la necessità di trasmettere ai posteri la memoria delle proprie fattezze, indicando più o meno esplicitamente la legittimità delle proprie rappresentazioni figurative. Non è un caso se il richiamo a questi oggetti fu frequente negli scritti di coloro che, all’epoca delle controversie iconoclastiche nell’impero bizantino (730-787 e 815-843), si premurarono di giustificare la liceità e l’utilità spirituale del culto delle immagini:  il termine impiegato rinviava alla contrapposizione elaborata da san Paolo tra il modello veterotestamentario del tempio di Gerusalemme “fatto da mano d’uomo” e la nuova dimora divina rappresentata dal corpo stesso di Cristo, del quale il pezzo di stoffa recante le sue tracce fisiche costituiva al contempo un’efficace manifestazione e una potente metafora.

Rispetto al Mandylion o alla Veronica, in cui era presente solo l’impronta del volto di Cristo, la Sindone si distingue per il fatto che mostra l’intero corpo di Gesù e in questo senso si apparenta a una serie di altre immagini-reliquie celebrate dalla letteratura medievale -come il Cristo di Beirut e il Volto santo di Lucca – che si dissero realizzate nell’ora suprema del sacrificio sulla croce da parte di testimoni oculari della passione. In generale la posa e la disposizione delle braccia e delle gambe ricorda quella tradizionalmente impiegata nella decorazione dei tessuti ricamati che, al più tardi a partire dal xiii-xiv secolo, venivano impiegati dalla chiesa bizantina durante la liturgia eucaristica e, in modo particolare, durante le cerimonie del Venerdì Santo; le soluzioni figurative utilizzate per questi ultimi riprendevano elementi dello schema iconografico del Thrènos o Compianto sul Cristo morto, diffuso a partire dall’xi secolo, adattandoli a una presentazione iconica in cui, come si vede nell’epitàphios del re serbo Milutin (verso il 1300), la figura di Cristo giacente sulla  lastra  dell’unzione  compari- va  in  posizione  frontale,  esatta- mente  come  nell’immagine  sindonica.

In tal senso si è recentemente ipotizzato che tale affinità iconografica possa essere posta in relazione con l’uso testimoniato agli inizi del xiii secolo a Costantinopoli presso il complesso ecclesiastico delle Blacherne, di esporre alla pubblica venerazione un oggetto conosciuto anch’esso come “Sindone” (la stessa oggi a Torino?) in occasione del Venerdì Santo.

L’altro elemento di indubbia suggestione è rappresentato, nel sudario torinese, dalle caratteristiche fisionomiche del volto di Cristo, quali ci sono rivelate dal negativo di Secondo Pia, che conferisce loro una straordinaria intensità drammatica. A saltare agli occhi, oltre alle sopracciglia ampie e arcuate e soprattutto la presenza della barba e dei lunghi capelli che ricadono simmetricamente lungo le spalle, in conformità con i tratti distintivi che i fedeli sia cattolici che ortodossi, per molti secoli, sono stati abituati ad associare alla figura del Salvatore e che le arti figurative hanno interpretato in una serie pressoché interminabile di rappresentazioni. Tale fisionomia è tuttora talmente radicata nell’immaginario collettivo da costituire un modello di riferimento irrinunciabile per qualsiasi nuova raffigurazione, ivi comprese quelle più estreme e anticonformiste, come ad esempio le immagini di Gesù “primo socialista” diffuse da una serie di stampe ottocentesche o le più recenti reinterpretazioni.

Il radicamento di siffatte consuetudini visive spiega perché in molti abbiano reagito con fastidio e indignazione quando, nel 2001, la Bbc mandò in onda una ricostruzione digitale del volto di Cristo, basata sul confronto tra “antiche rappresentazioni” e i risultati di un’analisi comparata sulla conformazione cranica delle popolazioni dell’antica Giudea in età imperiale, che lo raffigurava con “capelli corti e increspati, barba appena accennata e pelle olivastra”.

Di fatto, questa soluzione altro non era che la trasposizione tridimensionale di un particolare tipo iconografico di cui si hanno in realtà diverse attestazioni in ambito vicino-orientale tra il VI e l’VIII secolo e in cui si è voluto riconoscere, piuttosto arbitrariamente, un preciso intento di caratterizzazione etnica di Cristo. Per quanto ci è possibile ricostruire sulla base delle testimonianze superstiti, si trattava piuttosto di una variante antica, radicata nell’area siro-palestinese ed egiziana, e derivata plausibilmente dai tipi fisionomici che l’arte figurativa ebraica del III-IV secolo utilizzava per la caratterizzazione dei più illustri personaggi dell’Antico Testamento.

Effettivamente sia questo, sia il tipo con i lunghi capelli e la barba costituivano soltanto alcune delle soluzioni figurative che, nel corso dei primi secoli, vennero elaborate in seno alle comunità cristiane per contraddistinguere la figura di Gesù di Nazaret. Una serie di difficoltà dovevano essere superate affinché si potesse addivenire a una definizione condivisa delle sue caratteristiche esteriori:  in primo luogo ci si scontrava col silenzio delle narrazioni evangeliche, che non fornivano indicazioni specifiche circa l’apparenza fisica ma suggerivano allo stesso tempo che quest’ultima aveva subito una mutazione radicale al momento della trasfigurazione sul monte Tabor.

Inoltre, l’esitazione degli apostoli e degli altri destinatari delle apparizioni del Cristo risorto dimostrava come il Suo aspetto, ricolmo della gloria divina, differisse sostanzialmente da quello assunto precedentemente alla passione; questo poteva indicare, secondo alcuni commentatori, che la sua apparenza terrena fosse stata banale o persino sgradevole. D’altra parte, se era vero che, come si evinceva in particolare da Giovanni, 1, 18 (“Dio nessuno l’ha mai visto:  proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”), la contemplazione del Padre era resa possibile dalla forma del Figlio di Dio incarnato, si poteva immaginare, al contrario, che questi mostrasse un aspetto distinto – ossia sovrumanamente bello – rispetto a quello dei comuni esseri umani, oppure che manifestasse la propria incirconscrivibilità mutando continuamente volto. In tal senso, taluni, come Origene, arrivarono a ritenere che si rivelasse agli uomini in forme mutevoli e corrispondenti alla disposizione d’animo di chi l’osservava; secondo un testo apocrifo, il cui nucleo risaliva al II secolo, gli Atti di Giovanni, agli occhi di due dei suoi apostoli Gesù poteva contemporaneamente apparire giovane e vecchio, alto e basso, lungochiomato e stempiato.

© L’Osservatore Romano

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