Scienza, fede, ragione, informazione. Direttore Paolo Centofanti

News settembre 2009

L’anonima fine del detenuto n. 368

da L’Osservatore Romano,  2 settembre 2009

L’anonima fine del detenuto n. 368

Gli ultimi giorni di Pavel Florenskij

Diventerà una mostra itinerante l’esposizione “Nulla va perduto. L’esperienza di Pavel Florenskij” allestita a Rimini in occasione del Meeting per l’amicizia dei popoli. Pubblichiamo un articolo di uno dei curatori.

di Adriano Dell’Asta

Pavel Florenskij fu per molti versi un personaggio eccezionale:  grandissimo matematico, fisico, inventore, filosofo, linguista, teologo, studioso dell’iconografia, poeta; non c’è quasi disciplina che non abbia almeno in parte affrontato, e in quelle a cui si dedicò più a lungo lasciò comunque un segno. Di lui Sergij Bulgakov, un altro genio enciclopedico – prima di essere filosofo e teologo fu economista – ebbe a scrivere:  “Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita è il più grande. E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia”.

Una figura eccezionale, con un destino non meno eccezionale nella sua tragicità; quando padre Bulgakov scriveva il commosso ricordo da cui abbiamo tratto le righe appena citate, le notizie sulla morte di Florenskij erano ancora avvolte nel mare di oscurità, imprecisioni e menzogne di cui il regime sovietico si compiaceva di circondare la fine delle proprie vittime, per cancellarne dopo l’esistenza fisica anche la memoria. Accanto alle inesattezze sulla data della morte – nel 1974, la prima edizione italiana de La colonna e il fondamento della verità (Milano, Rusconi) portava ancora la data ufficiale del 15 dicembre 1943 – fiorì così ogni sorta di leggenda e di mito anche pittoresco:  si raccontava per esempio che fosse morto perché, assorto nelle sue meditazioni, non si sarebbe reso conto di essere entrato in una zona proibita ai detenuti e una guardia gli avrebbe immediatamente sparato; altre versioni, al contrario, lo facevano vivere molto più a lungo e lavorare in un laboratorio segreto alla costruzione della bomba atomica sovietica. Oggi di questa fine, molto meno teatrale, sappiamo invece quasi tutto:  la condanna alla fucilazione venne pronunciata il 25 novembre 1937, mentre era già detenuto alle Solovki, ed eseguita l’8 dicembre, non alle Solovki, ma sul continente, nei pressi di Leningrado, dove padre Pavel era stato inviato tra il 2 e il 3 dicembre con un gruppo di altri 509 condannati; lui, uno dei tanti anonimi “casi” da liquidare alla svelta, portava il numero 368.

Non sappiamo ancora con assoluta certezza il luogo della sepoltura, e probabilmente non lo sapremo mai, ma in compenso conosciamo alcuni particolari che, fuori da ogni mito o leggenda pia, rendono la fine di padre Pavel ancor più eccezionale:  caso, se non unico, rarissimo, Florenskij andò al martirio dopo aver ripetutamente rifiutato durante la detenzione la possibilità di essere liberato e inviato all’estero con la famiglia.

Una prima serie di rifiuti a proposte simili risalirebbe al periodo del primo arresto, avvenuto il 21 maggio 1928 e culminato in una condanna a tre anni di confino, relativamente mite per quel periodo e oltre tutto annullata dopo poche settimane; il principio che avrebbe ispirato questi rifiuti era quello che padre Pavel condivideva con i suoi figli spirituali e con chiunque gli chiedesse consiglio in quegli anni tremendi:  “Quelli tra voi che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, e quelli invece che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare”. Un principio di grande realismo e sobrietà, ma può sempre sorgere il dubbio che sia facile dare simili consigli parlando del destino altrui e vivendo ancora in una condizione di relativa libertà.

Tutto diventa evidentemente ben più spinoso e sofferto dopo il secondo arresto, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1933. L’accusa è quella di aver fondato un partito per la rinascita della Russia, che gli organi inquirenti definiscono sinistramente “un’organizzazione controrivoluzionaria nazionalfascista”. Si tratta di una colossale montatura, ma la condanna arriva ugualmente, il 26 luglio del 1933, e questa volta è a dieci anni di campo di concentramento, una misura che non lascia molto spazio a facili eroismi. Eppure nell’estate del 1934, tra la fine di luglio e i primi di agosto, Florenskij rifiuta nuovamente l’offerta di uscire dall’Unione Sovietica con la propria famiglia; è la stessa moglie che gli presenta questa proposta, durante una visita che gli può fare nel campo dove è detenuto. Approfittando dell’incontro gli presenta il caso di due sue figlie spirituali, Ksenija Rodzjanko e Tat’jana Saufus, che erano già state arrestate tre volte e nel 1930-1933 erano state mandate al confino in Siberia:  le due donne chiedono se restare in patria o cercare salvezza espatriando e padre Pavel benedice la loro partenza; andranno in Cecoslovacchia. Contemporaneamente la moglie lo informa che il Governo cecoslovacco si è detto disposto a offrire asilo a lui e alla sua famiglia, ma ha bisogno della sua disponibilità per iniziare contatti ufficiali con il Governo sovietico; come abbiamo già anticipato Florenskij risponde con un netto rifiuto.

La cosa non finisce però qui; la Saufus, dopo essere arrivata in Cecoslovacchia ed essere entrata nella segreteria dell’ex presidente Masaryk, nell’autunno del 1936 fa in modo che la questione venga riproposta ancora una volta attraverso la ex moglie di Gor’kij, Ekaterina Peskova, un personaggio insospettabile per il suo passato rivoluzionario, e che inoltre sapeva farsi ascoltare dal regime e già altre volte era intervenuta a favore di Florenskij e di altri intellettuali caduti in disgrazia. A questo punto, fuori da qualsiasi abbellimento agiografico, e a conferma di questa storia quasi incredibile, abbiamo la testimonianza della stessa Peskova, conservata negli archivi di Gor’kij presso l’Istituto di Letteratura mondiale dell’Accademia delle scienze russa; in un suo appunto indirizzato al Commissariato del popolo degli Affari interni (Nkvd) leggiamo:  “C’è stata la richiesta di Masaryk, trasmessami dal console ceco Slavek, nella quale si proponeva per Florenskij, come eminente scienziato, la commutazione del lager con l’esilio in Cecoslovacchia, dove gli si offriva la possibilità di un lavoro scientifico. In seguito ai contatti avuti con la moglie di Florenskij, che mi ha comunicato che il marito non intende andare all’estero, mi sono limitata a chiedere la liberazione di Florenskij “qui””.

Questa rinuncia alla libertà è un fatto già di per sé straordinario, ma per rendersi conto sino in fondo della sua eccezionalità dobbiamo tornare ancora brevemente alle condizioni in cui avviene:  quando Florenskij oppone questo ennesimo rifiuto alla proposta di espatriare non è in libertà o al confino o in un lager “sopportabile”; nel 1936 è già alle Solovki, le “isole dell’inferno”, e su quello che sta vivendo ormai non si fa più alcuna illusione, come risulta dalle lettere alla famiglia – la cui edizione italiana, col titolo Non dimenticatemi, è stata curata da Natalino Valentini e Lubomír Zák (Milano, Mondadori, 2006, pagine 420, euro 10,40). La tragedia è percepita in tutta la sua atrocità, nella sua realtà completamente disumanizzante e nella desolazione che tutto questo comporta.

È sì vero che nonostante tutto e persino in queste condizioni padre Pavel riesce a conservare una integrità spirituale che gli consente di essere ancora un punto di riferimento e un esempio per i suoi compagni di detenzione:  lavora in modo encomiabile, aiuta chiunque abbia bisogno di lui, è sempre disposto a qualsiasi sacrificio pur di soccorrere i suoi compagni di sventura. Ma questo comportamento esemplare non toglie minimamente il dolore e la sofferenza, anzi rende l’insensatezza di questo destino ancora più bruciante. Ci sono delle lettere dalle Solovki nelle quali questa percezione si fa quasi disperata:  riesce ancora a dare dei contributi scientifici, ma lo fa in condizioni così assurde che deve concludere:  “Quanto al lavoro scientifico, per svolgerlo non c’è proprio niente, almeno di ciò che serve a me”; a ben vedere, poi, non è tanto il lavoro scientifico a essere difficile, ma qualsiasi attività intellettuale in quanto tale:  “Non ho tempo, né luogo, non solo per fare qualcosa, ma neanche per pensare”, dice in una lettera e poi aggiunge “anche la lettura è diventata per me una cosa estranea, una occupazione del tutto passiva”. L’esito è una quasi totale estraniazione dalla realtà e dalla vita:  “È così che mi sento, soprattutto in questi ultimi giorni:  tagliato fuori da tutto ciò che è vivo”.

Florenskij sembra aver toccato l’estremo nulla, il nichilismo nel suo senso estremo, dove le cose non valgono e non dicono più nulla, soprattutto dove le cose non dicono più la loro bellezza e non rimandano più al loro creatore. Di fronte allo spettacolo delle isole e del loro monastero (una delle meraviglie del panorama storico e naturale russo), non scatta in Florenskij alcuna commozione; per quanto quello che vede possa essere bello, “In queste condizioni non fa piacere (…) So che questo è molto bello, ma l’anima è quasi sorda a questa bellezza”, anzi riesce a cogliere esattamente il suo contrario:  “Il monastero-fortezza ha un aspetto fatiscente, estremamente sgradevole, malgrado il suo interesse storico e archeologico. Io non ho neanche voglia di guardarlo”.

Sono osservazioni tanto più sorprendenti quanto più ci si ricorda che vengono da un uomo che proprio nella natura e nella sua bellezza misteriosa aveva trovato una traccia del mistero di Dio; sin da bambino, la natura era stata per lui innanzitutto il luogo del mistero e dell’eternità:  “Sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna. L’Eternità mi chiamava e io ero con lei”.

Qui invece la natura sembra non dire più nulla e l’uomo sembra gridare di nuovo come Cristo sulla croce:  “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
L’eccezionalità del rifiuto a espatriare si capisce proprio alla luce di questa situazione esterna:  là dove sembra che sia rimasto soltanto il non senso, là dove si è preda soltanto dell’apparente abbandono di Dio e tutto sembrerebbe dover spingere alla fuga, questo stesso Dio si fa misteriosamente presente proprio nella forza che consente a Florenskij non solo di non cercare la fuga, ma di rifiutare la liberazione che gli viene offerta; quali che siano le tragedie vissute e sperimentate sulla propria pelle, per quanto possa essere reale e potente la sensazione della tempesta che sta per travolgerlo e per cancellare non solo la sua esistenza e i frutti del suo lavoro ma la sua stessa memoria, altrettanto reale è un’altra esperienza:  c’è qualcosa, un luogo, qualcuno in cui nulla va perduto.

In un passo straziante di una lettera al figlio Kirill, Florenskij scrive:  “La mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane. Spero che un giorno, in qualche modo pur a me sconosciuto, sarete ricompensati di tutto ciò che ho tolto a voi, miei cari. La cosa più orribile della mia sorte è la cessazione del lavoro e la sostanziale distruzione dell’esperienza di tutta la mia vita. Ebbene, se non fosse per voi non mi lamenterei di aver subito questa sorte. Se la società non ha bisogno dei frutti del lavoro della mia vita, rimanga pure senza di essi:  bisogna ancora vedere chi subisca il maggior danno, se io o la società, per il fatto che non darò ciò che potrei dare. Ma mi dispiace di non poter far voi partecipi della mia esperienza e soprattutto di non potervi accarezzare”.

Tutto sembra perduto ma non è mai così:  Florenskij vive sino in fondo tutto quello che gli è dato di vivere, sapendo che “non sono gli affanni del presente a oscurare l’eternità, ma che l’eternità ci guarda dalle profondità degli affanni del presente”; non è l’uomo a dover abbattere ostacoli insormontabili e a dover vincere tenebre paurose per potersi avvicinare alla luce e scorgerne qualche raggio, è questa stessa luce che gli viene incontro e lo avvolge, rendendolo a sua volta luminoso e fonte di luce per tutti proprio nel cuore del buio più profondo.

Nella tradizione cristiana il testimone dell’eterno e della luce è quello che si chiama il santo o il martire, quello per il quale fede e vita sono ormai diventati una cosa sola, come Florenskij aveva detto molti anni prima della propria fine:  “Il santo è testimone, è testimonianza non a causa delle parole che dice, ma perché egli è santo, perché vive nei due mondi, perché vediamo in lui con i nostri occhi i flussi puri della vita eterna, indipendentemente dal fatto che essi scorrono in mezzo alle nostre torbide e terrestri acque che rovinano la vita. In mezzo alle acque morte – ma anche vive – della storia, nonostante la presenza delle potenze negative del mondo. Ed è per questo che il santo testimonia con il suo stesso essere l’esistenza della Sorgente di forza contraria:  la Vita”.

Nelle lettere non poteva dirlo, ma Kirill e tutti gli altri suoi figli sapevano benissimo da dove venisse e in cosa consistesse questa vita; glielo aveva scritto nel proprio testamento spirituale:  “Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno, o se questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi. E in genere vi prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte. La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore e di vivere al suo cospetto. Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi, il resto non sono che dettagli o cose secondarie, ma questo non dimenticatelo mai”.

Del resto era proprio questo che aveva detto per motivare il suo rifiuto di espatriare:  “Tutto posso in colui che mi dà la vita”, “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.
Anche in questo caso Florenskij realizzava una cosa che aveva scritto molti anni prima, addirittura nel 1906:  “La vita non ci aspetta, la vita reclama le sue esigenze, e ora non si potrà più restare semi-credenti o semi-ortodossi come la maggior parte di noi, ma è necessario raccogliere tutte le forze dell’anima in vista di un unico fine:  per servire la Chiesa, per difendere la Chiesa e chi lo sa, forse per il martirio”.

Là dove l’umano abbandonato a se stesso sembrava non poter vedere più nulla, la luce della fede aveva illuminato la ragione e, radicandola nella Chiesa e nel suo servizio, le aveva fatto cogliere la verità ultima delle cose:  che l’uomo, in Cristo, diventa capace di resistere anche alle potenze apparentemente più invincibili, si compie come altrimenti gli sarebbe impossibile anche solo immaginare. Era in fondo l’esperienza vissuta dallo stesso Florenskij, scienziato e filosofo, per il quale l’incontro con la fede non aveva escluso la ragione e neppure esentato dal suo uso, come se l’uomo, una volta incontrata la fede, potesse fare a meno della ragione, ma anzi l’aveva potenziata; la fede, con il mistero al quale continuamente rimandava, non solo non aveva impedito alla ragione di procedere, ma l’aveva spinta anzi a un ricerca continua, secondo quello che per Florenskij era il dinamismo stesso della ricerca scientifica:  “Tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero”.

Nella prima lettera di Florenskij a uno dei suoi due grandi padri spirituali, il vescovo Antonij Florensov (1847-1918), quello che è ancora un giovane matematico alla ricerca della sua definitiva vocazione mostra già di aver intuito quale sia il centro della vita:  Cristo, un Cristo che è irriducibile a dogmi e a valori astratti, ma che non può neppure essere ridotto alle azioni compiute per Lui, neppure alle buone azioni e alla bontà; tutto ciò infatti non basta ancora, come Florenskij aveva imparato dalla storia della sua famiglia, un’ottima famiglia, con un padre una madre di grande generosità, ma che proprio per generosità, per un rispetto umano mal inteso, per evitare imposizioni, avevano tenuto lontano il proprio figlio dalla religione e così lo avevano privato, come avrebbe detto lui stesso “del sostegno più forte, della più fidata delle consolazioni”.

Presentiamo alcuni brani della lettera dell’11 luglio 1904:  “Ci sono degli istanti e dei periodi (anche di qualche giorno) in cui cesso di sentire Cristo, la Sua gioia e la Sua leggerezza. È difficile spiegarlo a chi non l’abbia provato:  non è che vengano fuori dei dubbi, i dubbi hanno i loro rimedi, ma ti senti sordamente insensibile, indifferente, né freddo, né caldo, tiepido verso ciò che è fondamentale; e la preghiera poi diventa formale, solo parole; e vedi chiaramente tutto l’orrore di una situazione in cui guardi a Cristo come a qualcosa di passato, che se n’è andato (…) Ho cercato a lungo di capire da dove nascesse questa situazione e alla fine credo di aver capito. Quando agisci in nome di Cristo senti la Sua presenza, ma appena smetti di lavorare in questo modo, chissà perché, per motivi indipendenti dalla tua volontà, è come se Cristo se ne fosse andato chissà dove (…) I miei genitori sono persone con una buona formazione secolare, ma assai scarsa da un punto di vista filosofico-religioso e comunque non si considerano credenti. Sono caratterizzati da una grande bontà e da una costante disponibilità ad aiutare gli altri; so da altri (da altri perché di questo loro non parlano) che mio padre ha aiutato e aiuta molto il prossimo, spesso rinunciando anche alle più normali comodità. Ma l’oggetto principale dei loro pensieri e dei loro sentimenti è la famiglia. Tutto è per lei, per noi, per i figli. (…) I genitori non hanno e non hanno mai avuto del tempo per loro, dei divertimenti e degli svaghi (teatro o cose simili) per loro soli, delle comodità. Decisamente tutte le forze dei genitori sono sempre state spese per noi, e tutti i loro pensieri sono sempre stati rivolti a come far sì che noi potessimo avere la migliore istruzione, la migliore educazione, i migliori divertimenti, e via dicendo (…) Non conoscerei una famiglia più perfetta della nostra (per quel che riguarda i genitori) se non fosse per un particolare:  la vita religiosa ne era assolutamente esclusa. I miei genitori, essendo non credenti, o per lo meno non cristiani nel senso pieno della parola, erano però assolutamente tolleranti nei confronti di qualsiasi convinzione religiosa, a patto che restasse pura teoria. Questo li indusse a non infonderci le loro convinzioni, ma non permise neppure loro di esercitare su di noi una qualsiasi influenza religiosa. Ed ecco, dopo che tutta la vita era stata interamente spesa per fare della famiglia qualcosa di unico, perché questo era il sogno dei genitori, dopo che fummo cresciuti, i genitori videro, con il più totale sconforto, che la famiglia si disfava, oltretutto (…) per dei motivi assolutamente incomprensibili. Si dice che questo sia uno dei frutti dell’individualismo contemporaneo, ma mi pare che questo sia soltanto un altro modo di chiamare lo stesso fatto e che non spieghi nulla (…) Non è che ci fossero litigi; questo proprio non c’era, semplicemente non c’era unità, non c’era nulla che unisse dall’interno; non c’era una famiglia, ma un gruppo di persone, ed era come se ciascuno facesse per conto suo. Dentro di me penso:  “Qui non c’è Cristo””.

© L’Osservatore Romano

Lascia una risposta